Venezia, diciamo basta prima che a farlo sia l’acqua

Una situazione drammatica, una città in ginocchio, una comunità in serie difficoltà. La minaccia costante di un mare che è sempre lì, pronto a divorare la storia a morsi sempre più grandi. Venezia sta vivendo probabilmente i giorni più difficili della sua era contemporanea. Va fatto qualcosa di importante,adesso!

Questa mattina, dalle colonne di HuffingtonPost, le parole angosciate ma allo stesso tempo ferme e risolute del Sottosegretario Baretta, veneziano doc: “Proviamo a dirci basta, proviamo, con umiltà, a dire basta alle polemiche, alle nostre sicumera, alla nostra ignoranza. C’è un criterio guida? Sì, il criterio è la storia secolare di questa città”.

Di seguito l’articolo completo.

Venezia, diciamo basta prima che a farlo sia l’acqua

In queste ore, in questi giorni, non riesco a distogliere il pensiero dalla mia città. È come se, mentre lavoro, mentre ascolto o parlo con le persone, mentre leggo un documento o mangio… un rumore di fondo, sordo e angosciante, mi accompagnasse ogni momento.

È il rumore del vento, delle onde, del pianto. Quel vento di scirocco che inchioda l’acqua quando vuole uscire, impedendole di defluire, e la spinge con forza quando deve entrare; quelle onde che si accavallano, si agitano e, d’impeto, scavalcano barriere e penetrano impietose nelle case, nei negozi, nelle chiese… nelle ossa.

È il pianto sordo della città che scricchiola e soffoca, quello muto dei veneziani che si sentono impotenti, traditi proprio da quell’acqua, quel mare amico e “sposo”. È il buio cupo e l’umidità ovunque…

Io c’ero nel 1966. Ho vissuto quel giorno – il 4 novembre – e quelli successivi come la fine della verginità. Ovvero come la fine di quella visione ingenua e superficiale che ci accompagnava allegri a sguazzare ogni acqua alta con gli stivaloni, andando o non andando a scuola, salendo il meno possibile sulle passerelle che assicurano il transito all’asciutto; trattando, insomma, il fenomeno come un elemento normale e, in ogni caso, dominato dalla nostra superiorità di umani che governano gli elementi.

Quel giorno no! Il 4 novembre l’acqua, quell’acqua silenziosa anche quando cresce ed esce dai canali e, prima, dai tombini, allaga i campi e le calli… quell’acqua, quel giorno, parlò. E disse lei: basta. Non noi.

Ma, noi, sottovalutammo quel grido. Il moto di solidarietà fu generale e il clima politico che si produsse irripetibile, tanto da consentire di varare, all’unanimità, la legge speciale, singolare prova di lungimiranza legislativa.

Ma poi ricominciarono le polemiche, i particolarismi, gli scandali (o meglio: “lo scandalo”), le “visioni” – o utilitaristiche o astrattamente ideologiche – sul destino di Venezia. E, così, senza farla lunga a ripercorrere la nota storia, siamo arrivati qui, a questi giorni, altrettanto tragici, se non di più.

Di più perché l’acqua alta oltre misura non è più un’eccezione: sì, lo sono i 187 cm accompagnati da un violento scirocco, ma i 120, i 130, i 150 sono sempre più frequenti, anche senza il vento che scuote. Silenziosi come serpenti, si insinuano nella quotidianità, diventando sempre più frequenti. L’esposizione alla salsedine diretta del contatto con l’acqua, non è più, dunque, occasionale, ma reiterata, ripetuta con una frequenza crescente e, quindi, i danni sono più profondi di quanto non appaia a prima vista.

Non ero a Venezia in questi giorni tragici, ma c’ero il sabato e la domenica precedenti e, senza ovviamente immaginare quanto sarebbe accaduto di lì a poche ore, mi colpì quanto era già alta sabato (quando per spostarmi da un posto a un altro, in barca, non si riusciva, come succede in questi casi, a passare sotto i ponti).

Ma, soprattutto, quanto era alta anche domenica, quando ho dovuto aggirare vari punti della città sott’acqua per arrivare al ponte di barche che portava al Cimitero. Non mi colpì, sinceramente la misura dell’acqua (un’altezza non da poco, ma conosciuta), ma la ripetitività del fenomeno a quei livelli, avendo letto che anche nei giorni precedenti l’acqua alta aveva invaso in più punti la città.

La frequenza del fenomeno e l’innalzamento generale dell’acqua fanno pensare che la punta di questi giorni (così vicina a quella del 1966) può essere, sì, eccezionale, ma sempre meno un’eccezione… con conseguenze inimmaginabili. E non solo su Venezia. In questi giorni i problemi e i danni hanno coinvolto le isole, il litorale, Chioggia, sino al Polesine. Tutta un’area larga è coinvolta nel disastro.

Ancor più grande e grave, dunque, è la nostra responsabilità, maggiore è la nostra colpa, di tutti. Diversamente dal 1966, quando Venezia e i veneziani sono stati presi di sorpresa, oggi la sorpresa non c’è. Tutti sappiamo tutto.

Eppure siamo lì – non si capisce più perché – a non decidere, a rinviare. Nemmeno più a discutere o litigare, in verità… solo a rinviare.

Proviamo a dirci basta, proviamo, con umiltà, a dire basta alle polemiche, alle nostre sicumera, alla nostra ignoranza.

C’è un criterio guida? Sì, il crite

rio è la storia secolare di questa città, che ha saputo unire tutela e vita quotidiana, anche con scelte coraggiose (i murazzi; la deviazione di fiumi) e con rigore applicativo (una magistratura dedicata e indipendente). Guardiamo, dunque, alla nostra storia e impariamo da lì. Non importa più discutere su chi ha ragione sul Mose, importa dirci che, ormai, almeno quello serve e va completato.

Non importa più sapere chi ha ragione sulle grandi navi, ma intanto fermiamo subito il loro passaggio davanti a San Marco; o sui canali da scavare distinguendo, finalmente, tra nuovi scavi, da evitare, e manutenzione degli esistenti da fare. E, fosse pure solo simbolico, ridiamo al Provveditore il fatidico nome di “Magistrato alle acque”, i veneziani capirebbero che si vuole fare sul serio.

Insomma, proviamo davvero, insieme, a dirci basta, prima che a dirlo sia l’acqua.

 

2019-11-15T14:10:03+01:00 15 Novembre 2019|Notizie dal Veneto, Venezia in Comune|

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