Sanità, Baretta: “Serve un nuovo modello sanitario per garantire universalismo”

sanita_convegno_issL’intervento del sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, a “Reti cliniche integrate e strutturate: innovazione organizzativa e tecnologica per il cambiamento in sanità“, il consensus meeting organizzato dalla Fondazione sicurezza in sanità che si è tenuto giovedì 20 luglio a Roma, presso l’Istituto superiore di sanità.

“Ringrazio il Presidente Enrico Desideri dell’invito a partecipare a questo incontro promosso dalla Fondazione Sicurezza in Sanità. Ho accettato molto volentieri; si tratta, infatti, di un’importante occasione di dialogo e di confronto per ripensare, insieme, il nostro sistema sanitario – che pure è uno dei migliori del mondo – alla luce dei cambiamenti economici e sociali, demografici ed ambientali, che modificano le condizioni di vita e le aspettative, i bisogni e le opportunità dei cittadini.

Ma non raggiungeremo lo scopo se non collocassimo questa riflessione all’interno di una visione strategica più ampia, che coinvolge il nostro modello di sviluppo e la qualità delle prospettive di crescita del nostro Paese. È una riflessione particolarmente importante in questa fase nella quale intravediamo la uscita dal tunnel. Tutti gli indicatori e gli osservatori ci dicono che la crescita economica c’è, è una realtà. Ma essa sconta tre aspetti problematici che vanno affrontati. Il primo è la sua fragilità. Dobbiamo irrobustire la tendenza positiva in atto, soprattutto sostenendo gli investimenti. Il secondo è la sua distribuzione a macchia di leopardo, che fa sì che essa non sia ancora percepita da fasce ampie di cittadini. La terza è la tendenza a misurarne prioritariamente gli aspetti quantitativi. Ma una crescita che non si occupasse della qualità del modello economico sociale e lasciasse fuori gioco troppe persone che prospettiva può avere?

Non rinunciamo, perciò, a pensare ad un’economia capace di ridurre le disuguaglianze, sostenere la crescita e puntare ad una equa redistribuzione delle risorse.

Porre al centro delle nostre riflessioni il ruolo che le amministrazioni pubbliche possono e debbono avere nella costruzione di uno sviluppo economico e sociale che garantisca benessere equo e sostenibile è il modo migliore per garantire i diritti universali riconosciuti dalla nostra stessa Costituzione, come quello alla salute.

Il modello di Stato sociale sul quale si basa la nascita stessa del moderno Stato di diritto rischia, infatti, di sgretolarsi di fronte all’allargarsi delle disuguaglianze.

Non si tratta di generiche affermazioni di principio. Ci aiutano le statistiche. Mark Twain diceva che le persone usano le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni: più per sostenersi che per vederci chiaro… In questo caso i numeri, ad esempio, della costante crescita delle malattie croniche nei Paesi occidentali assolvono ad entrambe le funzioni, ci consentono di vedere e di capire meglio la realtà, ma ci confortano nelle nostre tesi.

La crescita delle malattie croniche assorbe tra l’80 e l’85% dei costi sanitari. Nel 2016, secondo l’Istat, in Italia quasi il 40% dei residenti dichiara di avere una o più malattie croniche. Si tratta di circa 24 milioni di persone, che hanno generato il 55% dei contatti con i medici di Medicina Generale.

Ebbene, in 6 casi su 10 c’è una relazione tra questi numeri e le carenze nei servizi socio-assistenziali sul territorio e gravi ritardi diagnostici (XV Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità “In cronica attesa” realizzato dal Coordinamento nazionale delle Associazioni dei Malati Cronici di Cittadinanzattiva, 2017).

Serve un nuovo modello sanitario, dunque. Dobbiamo spingerci ad affrontare, come afferma da anni la Fondazione sicurezza in sanità, il ripensamento complessivo dei sistemi di welfare.

Oggi, sono il welfare sanitario e previdenziale, le nuove priorità che, oltre alla condizione giovanile, coinvolgono maggiormente la società italiana. E questo ci chiede di dar vita ad una riorganizzazione totale del sistema.

Ma, non basta. Sempre i numeri evidenziano la correlazione esistente tra la crescita del fenomeno ed i fattori di contesto. L’invecchiamento della popolazione, l’indice di disoccupazione, il tasso crescente di povertà assoluta, producono una vulnerabilità sociale e materiale che contribuisce in modo rilevante, al disagio e, di conseguenza, all’incidenza delle malattie, in particolare quelle croniche.

Solo attivando un circuito virtuoso tra integrazione delle reti cliniche, innovazione tecnologica e organizzativa dei distretti sanitari e riduzione delle disuguaglianze saremo in grado di generare un vero empowerment della salute.

Ecco, dunque, che, senza troppi passaggi logici, arriviamo a constatare che una logistica sanitaria efficiente, basata anche su reti cliniche integrate e sui principi del Population Health Management, capace di unire innovazione tecnologica e centralizzazione gestionale, in grado di integrare risorse pubbliche e outsourcing privato, permetterebbe allo Stato italiano di affrontare meglio le sfide che la modernità globale ci impone.

Siamo sulla strada giusta. Oltre alle risorse del patto per la salute, con la legge di stabilità 2016, il Governo ha destinato quasi due miliardi di euro, per il biennio 2017-2018, al contrasto della povertà. Si tratta di un primo passo che ha permesso a marzo di quest’anno di approvare la legge sul reddito di inclusione. Ma non solo. Gli indicatori di benessere, i cosiddetti Bes, sono entrati a far parte, per la prima volta dei criteri del bilancio. Tre su quattro degli indicatori individuati afferiscono all’area della vulnerabilità socio-economica: il reddito medio disponibile, l’indice di diseguaglianza, il tasso di mancata partecipazione al lavoro. Anche il quarto, che riguarda le emissioni di CO2 e di altri gas clima alteranti, ha a che fare con la salute pubblica.

Questo approccio, sia chiaro, non risponde solo ad un preciso dovere etico, ma ad una inderogabile necessità economica.

Da un lato, va ricordato che rispetto alla media europea la nostra spesa sociale è più contenuta. Questo divario si riduce se rapportato al Pil: l’Italia è al 9,4%, contro il 10,4% dell’Europa Occidentale, ma assume contorni preoccupanti se confrontato con i ritmi di crescita. Negli ultimi 10 anni la spesa sanitaria pubblica italiana è cresciuta dell’1% medio annuo contro il 3,8% degli altri Paesi dell’Europa Occidentale: un quarto, peraltro come il Pil; questo porta la spesa sanitaria pubblica italiana ad essere inferiore del 36% a quella degli altri Paesi considerati. La crescita della spesa privata (2,1% medio annuo) è stata invece leggermente inferiore a quella europea (2,3%), ma pari a oltre il doppio rispetto a quella pubblica.

Dall’altro lato, sappiamo che la spesa di welfare e sanitaria è destinata a crescere. Lo dimostrano le nostre curve demografiche e i dati sull’aspettativa di vita: in Italia, gli uomini vivono in media più di 80 anni, quota che sale a quasi 85 anni per le donne. È un dato incontrovertibilmente positivo, ma che impone anche una riflessione profonda sulle scelte di sanità pubblica, sempre più orientate al modello del long term care. Siamo di fronte alla richiesta di un’assistenza di lungo periodo che sia in grado di rispondere sia all’invecchiamento della popolazione, e alla conseguente non autosufficienza di quote consistenti di cittadini, sia alla modifica strutturale dei nuclei familiari, sempre più piccoli e disgregati, quindi non attrezzati per la cosiddetta assistenza informale su cui si è retta negli anni la nostra struttura sociale e sanitaria.

A ciò si affianca, la necessità di rispondere in modo strutturato ed efficiente alle “emergenze” alle quali ci pone di fronte la quotidianità: si pensi alla gestione delle fasi immediatamente successive a eventi e catastrofi naturali, come nel caso dei recenti terremoti che hanno colpito il centro Italia; ai picchi di assistenza che seguono lo sbarco sulle nostre coste dei migranti o alle imminenti campagne vaccinali necessarie per rendere attuativo l’obbligo di vaccinazione per bambini e giovani fino a 16 anni.

A fronte di queste tendenze destinate ad aumentare la spesa scontiamo un debito pubblico che ci condiziona pesantemente e che ci impone di operare delle scelte.

Si impone, a questo punto, una domanda decisiva: lo Stato sarà in grado di far fronte, da solo, a questa crescente domanda di welfare, mantenendone la qualità e la universalità?

No!

Cosa possiamo fare per trasformare questo problema in un’occasione?

La prima strada è, per l’appunto, una nuova cultura della logistica sanitaria. Parlo volutamente di “cultura”, prima ancora che di organizzazione…

Secondo uno studio preliminare condotto dalla Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso), dai farmacisti ospedalieri della Sifo e da Assoram, l’Associazione degli operatori commerciali e logistici, ogni anno una razionalizzazione dei processi interni delle aziende sanitare e ospedaliere permetterebbe allo Stato italiano di risparmiare ben 2 miliardi di euro. È la stessa cifra stanziata lo scorso anno nella legge di bilancio per la lotta alla povertà e per il sostegno alla sanità, che permetterà di riportare nel 2019 il fondo sanitario nazionale a 115 miliardi di euro.

È uno “scambio” che merita di essere considerato.

Una seconda strada è di tipo fiscale. Abbiamo visto che ci sono margini di miglioramento dei costi che non sono tagli di servizi, anzi il contrario. È applicabile lo stesso principio alla fiscalità? È possibile cioè ripensare alla riforma della fiscalità secondo principi di redistribuzione sociale. Che rapporto c’è tra il sistema di esenzioni e il reddito? Faccio un esempio. Non si favorisce un benessere equo e sostenibile se mia mamma, che vive con una pensione sociale, ed io, che ho redditi ed entrate economiche di natura notevolmente diverse, siamo considerati al pari dallo Stato italiano di fronte alla gratuità di alcune tipologie di cure. Viene meno il principio universalistico della nostra Costituzione? No. Perché universalismo vuol dire capacità di garantire equità di accesso alle cure. Resta fondamentale tenere a mente che “far parti uguali tra diseguali” è un’ingiustizia, come ammoniva don Milani. Ed è anche diseconomico!

Una terza strada è la condivisione. Lo Stato italiano deve essere in grado di siglare un nuovo patto sociale con i suoi cittadini, basato sulla compartecipazione tra pubblico e privato. Penso al grande mondo del Terzo settore e all’attenzione legislativa che, finalmente, c’è. Penso al welfare aziendale o ai Fondi sanitari integrativi, frutto della contrattazione collettiva che lo Stato deve mettere in condizione di intercettare la massa consistente di quei 30 mld l’anno di spesa privata per la salute pagata di tasca propria dagli italiani. Vanno in questa direzione gli incentivi fiscali previsti nell’ultima legge di bilancio.

Come ho cercato di dire all’inizio siamo di fronte ad una sfida affascinante, che, come succede in ogni passaggio d’epoca – perché di questo si tratta – passa attraverso una capacità di visione e di innovazione; di condivisione e di organizzazione.

Il traguardo del benessere equo e sostenibile promosso dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite trova nella sanità uno dei suoi principali banchi di prova. L’Italia parte avvantaggiata. Ciò aumenta le nostre responsabilità ed il nostro impegno”.

2017-07-24T13:06:46+02:00 24 Luglio 2017|In evidenza, News|

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