Pd, Baretta: “Per ripartire dobbiamo essere radicali nei valori, riformisti nei programmi e pragmatici e trasparenti nella gestione”

La sintesi dell’intervento del sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, al convegno “Il voto alle elezioni politiche: analisi per costruire il futuro” organizzato da AReS e Restart


Si è detto, giustamente, che il voto è stato un terremoto…

La ricostruzione non sarà semplice e dovremo fare delle scelte difficili e coraggiose. È, pertanto, giusto riflettere, anche spregiudicatamente, su quello che è successo, su di noi e sui problemi che ci attendono.

Lo faccio ponendomi, in maniera molto schematica, alcune domande indotte dalle caratteristiche di questo voto, che ha provocato questa clamorosa sconfitta del riformismo.

1. Per vincere le elezioni siamo obbligati ad un radicalismo sociale? Non c’è più spazio per i moderati?

Il voto, infatti, ha premiato linee “estreme”: reddito di cittadinanza, abolizione della Fornero, tassa unica al 15%; espulsione dei migranti. Ed ha punito linee razionali, responsabili, non necessariamente moderate (non lo erano gli 80 euro, né l’abolizione della tassa sulla prima casa); ma percepite come inadeguate perché compromesse con la compatibilità (“la via stretta”). È emerso lo scarto evidente tra la responsabilità e il realismo di un riformismo che affronta i problemi e avvia delle soluzioni, ma si fa carico delle compatibilità (il deficit, il debito pubblico, i mercati) e l’urgenza di risposte definitive, il bisogno di prospettive.

La soluzione dei singoli problemi di ogni giorno, alla quale ci siamo dedicati con determinazione e con buoni risultati, si è rivelata solo la punta di un iceberg. Nelle attese popolari, della gente, sono venute crescendo grandi questioni identitarie: le paure, la sicurezza, il futuro; la quotidianità indifesa.

La domanda che si è sviluppata non era solo di merito, ma di percezione della propria condizione di oggi e di domani. Il presente, con le preoccupazioni contingenti, legittime o eccessive, e il futuro ancora incerto, anche se migliore di ieri, hanno avuto la meglio sui buoni risultati raggiunti per rilanciare il Paese in questi cinque difficili anni di governo.

Il nostro è stato un “buon riformismo di manutenzione” che offriva soluzioni, ma non speranze. La nostra risposta è stata tutta di merito: un buon governo, quasi… tecnico. Nulla di sbagliato, sia chiaro, anzi; un buon lavoro; ma niente di fortemente identitario.

Non abbiamo fatto poco; abbiamo fatto molto, forse troppo, ma disperso in molti rivoli. Sicché, abbiamo avviato tante riforme, ma non le abbiamo completate. Il Jobs Act senza i servizi per l’impiego non risolve la precarietà; l’abolizione dei voucher senza sostituirli con altro, non aumenta i diritti, ma il lavoro nero; l’Ape social senza quella volontaria, per giunta costosa, diventa la conferma della Fornero, non la sua correzione; la riduzione del costo del lavoro senza aggredire strutturalmente i contributi non risolve il problema; l’accoglienza senza il Ius soli non è né carne né pesce; la sicurezza declamata, senza l’esercito davanti alle stazioni dei grandi e piccoli centri urbani, non è percepita come una rassicurazione. L’Europa dei vincoli, senza gli Stati Uniti d’Europa, è matrigna. In altre parole, abbiamo fatto dei passi, ma siamo sembrati stare a bagnomaria: né accoglienti né respingenti; né liberisti né socialisti. Abbiamo, cioè, cominciato a dare spazio ai Comuni per aggiustare le strade, per ripulire le periferie, per mettere a norma le scuole, ma non abbiamo dato la sensazione di ridisegnare la città.

L’idea che ci avrebbero riconfermato per completare l’opera era evidentemente sbagliata, perché il portato della crisi più drammatica da un secolo e la tumultuosità dei cambiamenti era tale che l’urgenza di risposte – di maniglie a cui attaccarsi per non sprofondare nelle paure e nel disordine – era tale che ciò che era incompleto è stato ritenuto sbagliato o inutile.

Anche perché gli avversari hanno costruito la loro campagna elettorale non nel merito dei problemi, ma dando fiato alle emozioni, alle paure, alle preoccupazioni. È una grave responsabilità, quella di chi si candida a governare soffiando sul fuoco e agitando la polvere, facendo promesse insostenibili, pur sapendo che governare è, sì dare una prospettiva, ma anche mediazione, vincoli, scelte che scontentano.

D’altra parte, non spetta all’elettore abbassare le promesse. Se saranno o no praticabili lo si vedrà e se non lo saranno cambieranno ancora orientamento. Anche perché l’elettore ha sempre ragione. Ed è vero, perché esprime la propria domanda e i propri interessi. Il professore Feltrin dice che il voto è meglio di qualsiasi ricerca sociologica…

Ma, il popolo ha sempre ragione? Si è detto che il malessere rivela domande legittime di protezione economica, sociale e personale. Ma, quanto c’è in questo voto di corporativismo o di solidarietà? Di riformismo o di conservazione? Come ne escono, da questo punto di vista, i sindacati e la Chiesa? Anch’essi sconfitti rispetto alle loro istanze e messaggi; scavalcati a destra e a sinistra da un massimalismo sociale e culturale.

Lega e 5Stelle hanno dato risposte sbagliate a un problema vero, ma hanno dato la sensazione di avere un’idea di Paese. Noi abbiamo impostato le riforme che ci volevano, ma non abbiamo dato una visione.

2. Chi governa è, dunque, obbligato a non mantenere le promesse?

Anche alla luce delle dinamiche internazionali (Brexit, Olanda, Trump), appare come se esistesse una condanna nelle moderne democrazie: per vincere le elezioni bisogna fare promesse tali che, una volta al governo, non sarà possibile mantenere. Oppure, se si vuole mantenerle, si è costretti a fare danni, o ai conti pubblici o alle regole del gioco (vedi Trump con i dazi). Ma, questo, ripeto, non è un problema dell’elettorato quando vota, lo sarà, semmai, dopo, quando valuta.

3. Siamo oltre la destra e la sinistra? Oltre i partiti?

Pd e Leu, da una parte, e Fi e Fratelli d’Italia, dall’altra, sono i soli partiti tradizionali in campo (le diverse sfumature di rosso e di nero, di sinistra e di destra) e hanno perso. Ha vinto un “impasto” alternativo di contenuti e modalità di fare politica.

Il fatto che sia possibile che Lega e 5S facciano un accordo tra loro o che Di Maio dica, indifferentemente: o con la Lega o col Pd, la dice lunga e pone la questione di cosa sia oggi sinistra/destra. Casaleggio dice che sono superate. Questa affermazione viene, dalle nostre parti molto contestata; ma Casaleggio ha vinto le elezioni, e se le elezioni sono lo specchio “vero” del Paese, una riflessione non scontata e non rassicurante si impone.

Abbiamo avuto tra i commentatori e tra i politici un’overdose della parola “sinistra”: il “popolo della sinistra”, la “sconfitta storica della sinistra”, come se non fosse, invece, ben più ampia e non abbia riguardato ceti e strati sociali ben più eterogenei: basti pensare all’accoglienza o ai diritti.

È del tutto evidente che esistono valori e programmi alternativi, più progressisti e riformisti, da un lato, o più conservatori e liberisti, dall’altro, ed è chiaro che segnano un discrimine. Ma è altrettanto evidente che siamo in uno scenario completamente differente da ogni riferimento storico. Il socialismo o la socialdemocrazia, il cattolicesimo democratico o l’economia sociale di mercato, come il liberismo, hanno risolto il problema delle contraddizioni dello sviluppo globale, delle nuove disuguaglianze, delle opportunità.

Peraltro, i vincitori – 5S e Lega – sono più movimenti che partiti, comitati civici. Quando diciamo ripartire dal territorio, dai circoli, cosa intendiamo? Si ripropone in toto la questione della “forma” politica, dell’aggregazione del consenso nella società “liquida”. Entrambi i vincitori hanno forme originali di radicamento sociale e territoriale: la Lega non solo nelle sezioni tradizionali, nei circoli, ma anche nei bar e nelle bocciofile; i 5Stelle non nei giornali, ma nei social. E, infine, la democrazia diretta: poca nei voti delle primarie, ma tanta nei social.

4. Siamo vittime delle personalità indiscusse e indiscutibili dei leader?

È un problema generale della politica contemporanea; vale per il caso Trump, vale per diverse esperienze europee, ma vale anche per noi, per il Pd. Renzi, quando è arrivato, ha scosso l’albero di un paese imballato, godendo, per la proposta di cambiamento (le riforme!) e di rinnovamento (la rottamazione!), di un consenso notevole, nonostante le modalità sbrigative della sostituzione di Letta. Ma, il Referendum, con la sua gestione individualistica, ha aperto la questione di quanto debba essere concentrato il potere in una sola persona – perché questo sarebbe successo in caso di vittoria -, per giunta dalla forte personalità. È un tema ricorrente nella democrazia italiana; successe a Craxi, a Berlusconi. La successiva scelta di Renzi di non mettersi da parte (almeno per un po’), dopo la sconfitta, ha trasformato il problema politico in un problema anche di credibilità personale, dal quale non ci siamo più ripresi.

Tanto più che l’evidente dialettica col governo Gentiloni, pur ufficialmente negata, ha legittimato un anno di dubbi sulle vere intenzioni del Pd sul suo stesso governo. E per finire: la mancata indicazione a premier di Gentiloni (quando, a un mese dal voto, il governo godeva del 40% dei consensi e il Pd del 20) e la formazione delle liste (la finta parità di genere e la selezione bulgara degli eletti).

Quanto ha pesato tutto ciò? Non sarebbe cambiato lo scenario di fondo; ma, insomma, tra il 18 ed il 24% c’è una bella differenza.

5. Quanto c’è di disinformazione nello scenario nel quale si inserisce il voto?

Per anni abbiamo convissuto con una polemica sulla casta concentrata sulla delegittimazione della politica, senza distinguere quella cattiva, da quella buona. E la politica non ha avuto la forza, la voglia, il coraggio, di fare riforme vere (abolire l’Autodichia, confluire nell’Inps, giustificare tutti i rimborsi), ma nemmeno di tutelare la dignità dei rappresentanti del popolo contro una demagogia che aveva come obiettivo, non solo di abolire privilegi, ma di spazzare via un’intera classe dirigente.

Al contempo, se tutte le sere, in prima serata, il leitmotiv del principali talk show era la delegittimazione (non tanto del Pd; toccava a lui perché era il Governo e perché Renzi era diventato un obiettivo facile), ma, di fatto, della politica e delle istituzioni, dando voce praticamente solo alla rabbia, al rancore. Dove la denuncia, doverosa e necessaria, diventava denigrazione, disprezzo. Insomma, un’operazione culturale che ha fatto da brodo di coltura degli argomenti dei vincitori.

Ereditiamo da tutto ciò un grande problema culturale, di senso civico, al quale dobbiamo dedicare molte, se non tutte, le nostre energie. Con umiltà, senza presunzione, dobbiamo rifertilizzare il terreno.

E ora? E se andassimo controcorrente? Se, dovendo ripartire dal 20% e il cosiddetto attraversamento del deserto potrebbe non essere breve, perché, anziché lisciare il pelo al consenso, non ci facciamo riconoscere per quello che siamo, o che vogliamo essere: una comunità politica aperta e inclusiva. Perché non ripartiamo da valori di riferimento che diano spessore politico a una nuova idea di riformismo, di solidarietà, di senso civico, di buon governo? Che propone la mediazione come valore e non come debolezza o tradimento? Che sostiene una democrazia più partecipata, ma rappresentativa? Che pensa che la politica sia un servizio, ma proprio per questo necessita di competenza e mezzi?

Insomma, perché non possiamo essere radicali nei valori, riformisti nei programmi e pragmatici e trasparenti nella gestione. Chissà, magari funziona…

2018-04-17T17:14:42+02:00 17 Aprile 2018|In evidenza, Notizie dal Veneto, Opinioni|

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