Oltre i tecnicismi. Come rendere bene comune la trasformazione digitale della Pa

Baretta_9L’intervento conclusivo del sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta, all’inaugurazione del Data center di Inail

Ringrazio l’Inail, il Presidente De Felice, il direttore Lucibello, dell’invito a condividere, con voi, questa importante giornata e mi complimento per il lavoro fatto nella realizzazione del centro. Complimenti che, ovviamente, estendo al dottor Tommasini e al suo gruppo di lavoro.

Interoperabilità! Non è una gran bella parola; non è il massimo della semplicità comunicativa. Ma,  più che una parola, è un concetto; ricorrente nelle riflessioni recenti sulla trasformazione digitale della Pubblica amministrazione italiana. Ebbene, vorrei che fosse il filo conduttore del mio intervento di oggi: interoperabilità. Non tanto per il senso strettamente informatico del termine, quanto per i risvolti sociali ed economici che porta con sé.

Ho ascoltato con grande interesse gli interventi di oggi, in particolare quando hanno raccontato di  esperienze di eccellenza della nostra Pubblica amministrazione. Sono la testimonianza concreta di chi ce l’ha fatta, di chi è riuscito, attraverso investimenti e know-how, a rendere l’innovazione un percorso imprescindibile, quasi normale, dei propri processi organizzativi, e non solo un tassello accidentale o al più straordinario.

Sottolineo questo aspetto di necessaria normalità che deve presiedere il nostro approccio alle trasformazioni digitali. Come è stato detto il centro informatico non può più essere il locale attiguo alla caldaia, nello scantinato…

Questi racconti, infatti, ci parlano di una realtà complessa e disomogenea, sia a livello territoriale sia a livello amministrativo.

Ne prendo due a titolo meramente esemplificativo: la ricerca dell’autunno scorso dell’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano e quella, più recente, dell’Istat sul processo di informatizzazione delle Pubbliche amministrazioni locali.

Secondo l’indice europeo Desi (Digital Economy and Society Index), che misura lo stato di attuazione dell’Agenda digitale nei Paesi dell’UE prendendo a riferimento cinque parametri (connettività, capitale umano, utilizzo di internet, integrazione della tecnologia digitale e servizi digitali Pa), l’Italia è 25esima sui 29 Paesi europei per l’innovazione digitale, seguita solamente da Grecia, Bulgaria e Romania.

Per quanto riguarda l’indagine Istat, un dato su tutti: solo il 60% di Regioni e province autonome permette di avviare e concludere per via telematica un iter relativo a un servizio, percentuale che scende al 34% per i Comuni e al 27/28% per Comunità montane e Province.

Eppure, la innovazione informatica e digitale impegna, ormai, risorse che si attestano al 4,8% del Pil, contro il 6,6% della media europea ed il 7% della Francia. Lo scarto c’è e va colmato. Basti pensare che il divario vale 700 mila posti di lavoro. Ma diciamoci anche che se siamo ad una cifra insufficiente, ma che vuol dire almeno 65 miliardi, dobbiamo sapere che, anche a nostra… consolazione, il dato è tale da essere diventato una scelta ormai irreversibile. Ecco perché possiamo solo accentuare il nostro impegno per la digitalizzazione del Paese e della Pa.

È per questo che il Governo, con diversi provvedimenti, ha stanziato 7 miliardi di euro, a cui se ne aggiungono altri 5 provenienti da operatori privati, per attuare la Strategia per la crescita digitale 2014-2020. Senza contare i 13 miliardi, in quattro anni, messi a disposizione dalla Legge di bilancio 2017, per Industria 4.0.

Obiettivo? Avviare un circuito virtuoso dove gli investimenti pubblici si connettono a quelli privati per rilanciare la crescita economica e sociale del paese. La collaborazione tra pubblico e privato è essenziale e la Pa deve guardare con amicizia alla collaborazione col privato, volerla, ricercarla.

Da qualche anno sono impegnato in una battaglia, finora perdente, per la realizzazione di un campione nazionale informatico. Le nostre aziende pubbliche o private, pur grandi, non hanno la dimensione adeguata per partecipare alle gare internazionali. Ebbene, solo una sinergia tra pubblico e privato, in una logica di settore, può consentire di superare questo gap. Ma, aggiungo, restando nel campo pubblico, che c’è un altro fronte, su cui sto spendendo le mie energie, spero con miglior fortuna, che affronta il tema del ruolo stesso della Pa, non chiusa in se stessa. Si pensi a Sogei, azienda in grado di servire la Pa, ma anche i privati e che, tutti noi, pensiamo che sia assolutamente in grado di competere, di stare nei mercati. Ebbene, che senso ha che un’azienda con queste caratteristiche – come, per altro verso è per Anas – sia dentro il perimetro della Pa; soggetta, cioè, a tutti i vincoli operativi e programmatici che ne conseguono?

Una discussione sulla organizzazione della Pa è importante anche ai fini dello sviluppo di un settore così trasversale quale questo di cui stiamo discutendo stamattina. Ma, anche, più in generale. C’è, infatti, ancora una sottovalutazione del ruolo trainante che una buona Pa ha nella crescita economica complessiva del Paese. Tradizionalmente pensata come la intendenza, che segue, si è, al contrario, ormai constatato che la Pa funziona sempre più da driver o da vero e proprio ostacolo.

Nella digitalizzazione del Paese, nella sua infrastrutturazione, questo ruolo diventa fondamentale. Un solo esempio. Si sa che l’Italia ha avuto un successo straordinario quando, a proposito di modelli di sviluppo economico, inventò i distretti. Caduti in declino, a fronte delle caratteristiche industriali indotte dai nuovi processi produttivi, ora si torna a parlarne, ma con una fondamentale differenza innovativa. I distretti di allora erano mono-merceologici (c’era il distretto del mobile, della scala, dell’occhiale, ecc.), oggi si parla della possibilità di distretti multi-merceologici, ma a condizione che le singole imprese poggino su una piattaforma tecnologica e informatica comune, al servizio di tutto il territorio interessato.

Gli stessi dati che richiamavamo prima dimostrano, infatti, che esiste una stretta correlazione tra livello di digitalizzazione di un Paese e la sua crescita economica, sociale, industriale e legalitaria. Oltre all’avanzamento del PIL, i Paesi che dal 2013 hanno investito di più in digitale hanno ottenuto forti miglioramenti nel Social Progress Index, nella classifica Doing Business e nel Corruption Perception Index.

È stato detto che il numero misura la realtà e ne penetra il significato, ma, come per il nome della rosa, il numero è nudo senza una strategia. Una strategia Paese. Anche la digitalizzazione non è fine a se stessa, ma a supporto di un’idea di crescita che valorizzi i punti di forza dell’Italia nel contesto globale. Il secondo paese manifatturiero d’Europa, il primo al mondo per patrimonio artistico, una piattaforma naturale nel cuore del mediterraneo, tornato centrale.

Per dare corso a questa prospettiva strategica è necessario che, come abbiamo detto poco fa, la Pa assuma un ruolo trainante. Ma perché ciò si realizzi è altrettanto importante che, nella Pa, si realizzino tutte le sinergie possibili tra gli Enti e le aziende pubbliche. Ed è qui che diviene centrale il ruolo svolto da Agid, dal Team per l’Italia Digitale e dalle tante amministrazioni, come Inail, che in questi anni hanno lavorato privilegiando un approccio digital orient, ossia, parafrasando un’espressione molto in voga in questo periodo, un approccio online first. Ecco che torna così centrale il concetto di interoperabilità che richiamavo all’inizio.

Allargando la riflessione dagli aspetti tecnico-organizzativi a quelli più squisitamente culturali e pedagogici, l’interoperabilità ha un portato di collaborazione, condivisione, scambio di idee ed esperienze che rende il processo di digitalizzazione della Pa come un percorso verso la cittadinanza digitale e l’estensione dei diritti di democrazia.

Solo così si riesce a dare dignità al contributo di ognuno, dal Governo alle amministrazioni, dalle aziende ai cittadini.

Solo rendendo la trasformazione digitale della Pubblica Amministrazione italiana come un bene di tutti, un bene comune, si possono accelerare i processi di cambiamento e innovazione.

Il problema in passato è stato affrontato, soprattutto a livello legislativo; quello che manca è l’interoperabilità sia a livello sociale sia in termini di esecuzione e reingegnerizzazione dei processi grazie alle nuove tecnologie. Ho portato prima l’esempio del distretto tecnologico e del ruolo degli Enti locali; voglio ora proporvi altri due esempi di cosa può fare un vero processo di informatizzazione. Penso allo sdoganamento a mare delle merci o alla drastica riduzione del tempo di pagamento della Pa, arrivato a 50 giorni.

Ciò che è necessario mettere in chiaro è che l’innovazione non è un punto di arrivo ma un percorso continuo e non ci si può mai permettere il lusso di sentirsi arrivati: domani si deve sempre far meglio di oggi. All’inizio del mio intervento ho sottolineato come la digitalizzazione debba diventare una condizione “normale” della nostra vita; ora sottolineo l’altro aspetto fondamentale: quello della continua evoluzione del processo di aggiornamento ed ammodernamento.

La teoria del miglioramento continuo è alla base del processo di innovazione tecnologica che ha dato vita al post-fordismo. E, non dimentichiamolo, il post-fordismo coincide con la nuova stagione dell’innovazione, di cui informatizzazione e digitalizzazione sono il simbolo più compiuto.

Ma, digitalizzazione vuol anche dire assolutamente meno burocrazia e più tecnica, logica, ma soprattutto più professionalità e collaborazione. Dovremo, dunque, iniziare a scrivere meno leggi (basterebbe quella del 2005!) ed affidarci di più a più software, più esperienze concrete, più… interoperabilità!

Insomma, questa mattina, non abbiamo parlato solo di informatica, di tecniche, di organizzazione… abbiamo parlato di democrazia! Una democrazia che faccia del grande fratello, non una minaccia occulta, ma una risorsa trasparente, un vantaggio a favore dei cittadini. In definitiva, una democrazia di qualità. E, la qualità, veniva così descritta da un’azienda della old economy, che, però, di qualità se ne intendeva, la Roll Royce: “la qualità è un’attitudine mentale!”.

Questo è il nostro problema, questa è la nostra opportunità.

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2017-03-02T14:07:53+01:00 2 Marzo 2017|In evidenza, News|

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