La società senza sindacati che sognava la Thatcher

Sul numero odierno di Europa, il sottosegretario Baretta risponde all’articolo di Fabrizio Rondolino  pubblicato sulla stessa testata alcuni giorni fa.

Nel suo intervento, Rondolino sosteneva la sostanziale inutilità dei sindacati e delle forme di rappresentanza di parte, facendo leva sul numero d’iscritti (della CGIL) in rapporto al numero totale dei lavoratori.

Riportiamo qui il testo dell’articolo di Baretta, se si desidera leggerlo in originale sul sito EuropaQuotidiano.it, è possibile farlo seguendo QUESTO LINK 

La società senza sindacati che sognava la Thatcher 

di Pier Paolo Baretta, Europa 12.03.2014
 
 

L’errore di Fabrizio Rondolino (Europa 11 marzo) è di confondere i limiti oggettivi di rappresentanza del sindacato in questa fase storica con il problema generale della rappresentanza. Stupiscono le superficiali rappresentazioni di una complessa realtà sociale: quasi che i pensionati non avessero diritti da esercitare e i lavoratori privati o pubblici siano un peso per la società. Certo che non sono il “tutto”, ma una parte della società, come una parte lo sono sempre tutte le rappresentanze di interessi. Parte, in questo caso, peraltro, non proprio marginale: ben oltre 10 milioni di persone iscritte, con una regola che consente a ciascuno, se vuole, di lasciare il sindacato in qualsiasi momento, senza preavviso o vincoli. Non sarei così disinvolto nel catalogare questa esperienza soltanto come un intoppo al fluido scorrere della storia.

Più serio è il tema del corporativismo, insito nella natura stessa delle rappresentanze specifiche. Un rischio vero, da cui non è esente alcuna associazione professionale. La dimensione ha il suo peso; nel senso che, diversamente da quanto talvolta si è portati a pensare, più le associazioni sono grandi, più hanno un pluralismo interno che le obbliga a tener conto della diversitá di istanze e di esigenze.

Ma il problema c’è e le crisi economiche e sociali lo accentuano. Per ovviarvi serve una visione strategica della società, delle sue potenzialità e limiti, delle sue disuguaglianze ed opportunità. Serve un solido sistema di valori condivisi fondati sulla solidarietà. Entrambi, visione e valori debbono essere ben esplicitati e proposti, come identità comune, ai portatori di interessi che intendono aderire all’associazione e scelgono di conseguenza. Quando ciò accade, gli interessi di parte fanno i conti con quelli generali e talvolta i primi vengono subordinati ai secondi. O, se vogliamo vederla ancora più alternativa al corporativismo, gli interessi coincidono. Nella storia italiana è successo: il 14 febbraio 1984 con l’accordo per rivedere la scala mobile; il 1992 con quello sulla politica dei redditi. Per non parlare della lotta contro il terrorismo.

Ma come è possibile che le organizzazioni di interessi parziali e di parte diventino portatrici esse stesse di interessi generali? Beh, la risposta c’è. E la politica ha un ruolo decisivo nel riuscirci. Non adeguandosi alle istanze parziali, come troppo spesso è accaduto per colpa di una politica lassista ed essa stessa malata di corporativismo, ma nemmeno snobbando il problema, come altrettanti politici hanno tentato di fare, con effetti per lo meno controversi (a proposito, fu la Thatcher, ben prima e diversamente da Blair, a dare il via alla tesi che non accettando, non a torto, quella rappresentanza, finì per negare la società); bensì associando le “corporazioni” ad una visione generale di società che la buona politica deve proporre.

Associare è diverso da… consociare, come partecipare va oltre il solo, pur indispensabile, negoziare. Insomma, è sulla idea di democrazia che bisogna discutere. Nelle moderne società complesse e post-ideologiche la politica, anche quando si rivolge, come è giusto, direttamente al popolo, ha bisogno, per la buona riuscita della sua azione, tanto più se riformista, di mediazioni; prima, durante e dopo le decisioni e il governo.

Per dirla tutta, la questione non è nemmeno i sindacati, o questi sindacati (sia dei lavoratori che degli imprenditori), ma una idea di governo. Se non saranno i sindacati saranno i consumatori, se non i movimenti, i comitati, ecc. a condizionare le opinioni e le scelte. Anche la indipendenza e la autonomia delle rappresentanze di scopo o istituzionali (come la magistratura o i media) deve essere vissuta come ricchezza. La fatica della democrazia è un bene prezioso, la sua semplificazione non può voler dire il suo appiattimento. In questa idea di democrazia il conflitto ci sta, se non è fine a se stesso; ma non l’antagonismo.

Con questi presupposti apriamo pure una discussione esplicita sui limiti e gli errori delle attuali rappresentanze; insistiamo per una loro necessaria riforma e per un ripensamento degli stessi confini della rappresentanza. Sarà una discussione fertile per tutti. Sentiamo in molti il bisogno e la urgenza di farla, ma senza la ambiguità dei fini che vogliamo perseguire: vogliamo una democrazia moderna e una rappresentanza sociale inclusiva. Insomma, vogliamo una politica, dei sindacati, delle imprese e dei movimenti migliori e vivi, non morti e sepolti.

2014-03-12T13:54:26+01:00 12 Marzo 2014|News, Rassegna stampa|

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