XXII INTERNATIONAL SUMMER SCHOOL ON RELIGIONS – “IL SENSO DEL VIVERE OLTRE LE NUOVE SOLITUDINI”
II Sessione – San Gimignano (Siena), 27 Agosto 2015
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UNA NUOVA ECONOMIA E’ POSSIBILE?
Relazione introduttiva di PIER PAOLO BARETTA
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Viviamo in un mondo nuovo!
Ogni epoca storica – ed in essa ogni generazione – affronta sfide nuove, inedite… sconosciute; più o meno intense. Ma, ad alcune epoche storiche tocca misurarsi con un cambiamento così profondo da definirsi, propriamente, “epocale” e tale da determinare una mutazione antropologica. Noi viviamo una di queste fasi!
Nel 1981, con profetica intuizione, il Padre Ernesto Balducci, nel saggio emblematicamente titolato: “il terzo millennio” (opportunamente ristampato di recente dall’editore Mauro Pagliai, a cura della Fondazione Ernesto Balducci), ci aveva messo nell’avviso: “il sospetto che l’uomo occidentale sia entrato in una situazione apocalittica è diventato stabile in me…”.
(Personalmente, aggiungerei non solo occidentale, visto quanto sta succedendo con l’Isis, o le catastrofi nucleari giapponesi o l’inquinamento atmosferico in Cina, la strutturale e non breve instabilità economico finanziaria del pianeta… ).
Continua il padre Balducci, con impressionante sintesi ed attualità: “il balzo in avanti della curva demografica, lo scompenso insuperabile tra rivendicazione dei diritti da parte del Terzo Mondo e disponibilità globale dei beni di consumo, la crescita quantitativa e qualitativa delle armi atomiche, la necessità del ricorso all’energia nucleare e la conseguente necessità di modificare in senso poliziesco le conquiste democratiche: sono appena alcuni fra i molti dati della situazione che non si conciliano più con la visione della storia che finora ha alimentato la fiducia morale delle generazioni che ci hanno preceduto”.
E conclude: “La crisi non tocca solo le ultime modalità della civiltà d’occidente, tocca le sue stesse fondamenta… gli argomenti con cui eravamo soliti difendere i nostri modelli di vita non meritano più ascolto…, Occorre dispiegare una riforma della ragione…”
Ma, se guardiamo alla storia economica constatiamo che il pensiero economico liberista, dominante dal dopoguerra sino all’avvento della grande crisi contemporanea, si è ancorato all’idea dello sviluppo infinito, del consumismo esasperato come motore dello sviluppo, dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali, ambientali e di suolo.
La grande crisi economica che stiamo vivendo – con minore intensità di qualche anno fa, ma non con minore problematicità – ha reso evidente la insostenibilità di questo modello, ma esso resiste e tenta di imporre di nuovo le sue regole. La crisi, inoltre, ha introdotto una novità: la possibilità che anche gli Stati possono fallire! Allo Stato nazionale, – uscito trionfante dalla pace di Westfalia (1648) – tutto poteva succedere: che venisse sconfitto, annientato, soggiogato, assorbito, smembrato, umiliato, ma non che potesse fallire economicamente! Questa prospettiva inedita si è affacciata prepotentemente ed ha minato le certezze politiche ed economiche dei governanti, degli esperti, delle popolazioni. La questione è tutt’altro che risolta, come il caso della Grecia ci dimostra. Tutto ciò ha accentuato le difficoltà di una vera governance globale, sia commerciale che politica…
Viviamo proprio quel vuoto progettuale profetizzato dal Padre Ernesto. La conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
La globalizzazione dei mercati e della società ha certamente consentito a milioni di persone di uscire dallo stato di miseria nel quale versavano, ma ha aumentato le disuguaglianze, sia tra aree del mondo, sia all’interno delle stesse società.
È pur vero che è cresciuta una coscienza alternativa che ha consentito il diffondersi di un movimento di antagonismo globale e totale. Ma se il pensiero dominante era palesemente sbagliato, l’antagonismo globale si è rivelato fertile di testimonianze, ma sterile politicamente.
In definitiva sia la signora Thatcher che Fidel avevano risposte congiunturali, ma non le risposte giuste alla profondità del mutamento epocale (… e Keynes è stato rinchiuso in biblioteca!).
La domanda, allora, si impone: una nuova economia è possibile?
È possibile che tutte le componenti del vivere: economia, cultura, e politica convergano in una visione unitaria che tenga insieme, in un unico progetto di crescita, i valori liberali e quelli solidali. Cioè, nel nostro caso, che stiano insieme le ragioni del mercato (inteso come scambio), della produzione (cioè del realizzare), del profitto (cioè del vantaggio), della competitività (ovvero un sano agonismo come molla individuale e collettiva), con le ragioni della legittima affermazione della dignità della persona, dei bisogni di tutte le persone, della emancipazione e crescita personale e professionale, della crescita sostenibile (ambiente, territorio), della giustizia sociale in generale; in definitiva di una visione solidale e comunitaria?
È interessante notare come, negli ultimi anni, si alternino al Nobel per l’economia studiosi di fede liberista (Friedmann fu il più famoso) con quelli di scuola sociale: A. Sen, Fitoussi, Krugmann, Stiglitz…,
Il capitalismo, indubbiamente dominante, ci propone, infatti, diverse facce di sé. Agli inizi degli anni ’80, si sviluppò un dibattito tra il modello renano ed il modello anglosassone. Purtroppo fu lasciato cadere, ma nel frattempo la evoluzione storica ha sviluppato diverse, ulteriori, modi di concepire il mercato, la produzione, il profitto, la redistribuzione. Si pensi, in grande, ai modelli indiani o cinesi; o, in piccolo, alla riduzione dello sfruttamento dei bambini, dei prodotti tossici e così via. Ma, voglio, infine, ricordare una componente sempre più importante nella economia contemporanea. La crescita delle reti di economia e commercio equo e solidale, la cooperazione, le esperienze di mutualità, il sistema del credito cooperativo, il Microcredito, i fondi di previdenza e sanitari. Segnali ancora insufficienti, ma incoraggianti e sempre meno di nicchia.
Per dire come disponiamo di scuole di pensiero ed esperienza concrete che dimostrano con forza che non c’è solo un modo di concepire la economia, che non esiste un modello unico o un confronto/scontro tra due soli modelli economico ideologici.
Il primo fondamento teorico, sbagliato, del liberismo è, infatti, la oggettività del processo economico, sorretta da regole ferree per le quali il sistema (ovvero il mercato) si autoregola, cioè sa trovare da solo il punto di equilibrio, per cui non bisogna mettergli alcun vincolo, tanto meno pubblico. Ebbene, semplicemente: non è vero! Si può benissimo non imbrigliare il cavallo, ma ci vuole un cavaliere e delle piste sulle quali farlo correre…
Le condizioni ci sono. Viviamo una straordinaria epoca di innovazione tecnologica e scientifica, di apertura delle relazioni non solo istituzionali, ma tra le persone, indotta dalla facilità di comunicare e di muoversi!
In questa ottica propongo due spunti di riflessione per questo nostro itinerario di ricerca di una economia… migliore.
Il primo spunto riguarda il dibattito sulla austerità.
Quando la crisi si manifestò, come abbiamo detto, apparve chiaro che era una crisi strutturale. Nel senso che il modello era basato sulla sovrabbondanza. Va detto, subito, con chiarezza, che l’uso che è stato fatto della austerità ha preso la piega sbagliata, identificando, in maniera indiscriminata, “l’austerità” come il “rigore” e dando al rigore una connotazione esclusivamente negativa di sacrifici, di inevitabile necessaria riduzione dei diritti e delle prestazioni. A questa concezione del rigore è giusto opporsi, perché essa è di per sé recessiva e non espansiva (come, appunto, Keynes ci ricorda!).
Me non è questo il punto, troppo noto e condiviso, che oggi mi interessa proporre. Bensì come il dibattito sulla austerità sia stato, ed è tutt’ora, una occasione persa. Se sostituiamo alla logorata parola “austerità” la più discreta “sobrietà” ci rendiamo conto che una positiva teoria della sobrietà poteva (potrebbe!) accompagnarci nella crisi alla ricerca di un modello di vita più… equilibrato, come una occasione per ripensare al modello consumista. Ragioni ideologiche e politiche hanno strozzato questa riflessione, soprattutto nell’area progressista e riformista, impedendo il dispiegarsi di una battaglia, dentro la crisi, per una possibile “riforma” dei modelli di vita.
La vicenda, che tutti conosciamo, che ha fatto da scintilla alla crisi, delle case in America, concesse a condizioni troppo facili, insostenibili, è l’esempio paradigmatico. Più in generale la società consumistica occidentale ci ha abituato a vivere al di sopra delle possibilità collettive. Anche diritti fondamentali ed importantissimi, come il sistema di protezione sociale europeo, si è strutturato in una ottica universalistica, encomiabile in via di principio, ma con conseguenze pesanti nei conti pubblici. La questione è tutt’ora aperta ed è legittimo chiedersi se lo Stato sia in condizioni di garantire, a fronte, ad esempio, delle tendenze demografiche che comportano, per fortuna, un innalzamento importante del l’attesa di vita, o del mutamento profondo del mercato del lavoro, tutte le prestazioni sia mediche che di sostegno al reddito.
Vi sono, infine, due fattori che rendono ancora più stringente e potenzialmente drammatico questo scenario e necessitano di una svolta nella governance mondiale.
Il primo attiene alla principale contraddizione della globalizzazione. La straordinaria crescita demografica del pianeta esaspera la domanda di beni essenziali per tutti, anche per le società ricche e sviluppate; ma, ingigantita dal fatto che, nelle società non sviluppate, milioni di persone escono dall’isolamento e dalla esclusione, si affrancano dalla miseria e migliorano la loro condizione e diventano una massa enorme che sviluppa una inedita, quanto dirompente, domanda di “servizi”, primari quali, appunto, l’acqua, il cibo, le medicine… Basti pensare al cambio di alimentazione che lo sviluppo sociale comporta con la introduzione della carne nella dieta di molte popolazioni, la cui produzione richiede notevoli quantità di acqua.
In alternativa, le persone manifestano questa domanda scappando verso i luoghi del benessere, laddove questi servizi sono largamente accessibili…
Il secondo fattore è che questa domanda crescente si concentra nelle città. Tra pochi anni il 70% della popolazione mondiale vivrà in, o a ridosso di, aree metropolitane, dando vita ad insostenibili periferie urbane, degradate e prive di servizi essenziali. Il rapporto Unesco ci avverte che gli abitanti delle baraccopoli raggiungeranno il miliardo entro i prossimi 5 anni!
Sicché – come abbiamo già detto – l’effetto positivo della globalizzazione: la riduzione della povertà assoluta, finisce per provocare una conseguenza negativa: l’aumento di quella relativa e non solo quella materiale. In sostanza: meno povertà in generale, ma più disuguaglianza e degrado!
Un ripensamento a favore di una gestione più austera, sobria, delle risorse si impone. Non come rinuncia, ma come possibilità, come opportunità.
L’idea che ogni cosa sia vecchia nel momento in cui la compriamo, che ci sia sempre spazio per più vestiti, più telefoni, più “patrimoni”, mette al centro del ragionamento le cose. E se il centro sono le cose, allora le persone diventano un qualcosa di strumentale, di periferico, meno importante, tutto sommato… superflue come ogni altra cosa. Si entra così nel meccanismo per cui tutto può essere buttato e comprato di nuovo, anche l’Uomo. Ecco la società dello scarto, di cui stiamo discutendo!
Dunque il problema non è tanto economico, bensì etico, sociale. Politico! Ciò di cui abbiamo bisogno è un sistema in cui si miri non tanto alla massima produzione, ma all’utilizzo massimo delle risorse disponibili, in un quadro di compatibilità sostenibili, che siano poche o molte.
Ecco perché la crescita è ancora il parametro! Personalmente non sono un cultore dell’idea della cosiddetta “decrescita felice” perché rischia di contenere un equivoco redistributivo in un mondo dove abbiamo il problema di nutrire, dissetare, curare milioni di persone che ancora non godono del benessere, ma credo convintamente che lo stile di vita consumistico in quanto tale sia superato (e superabile). La questione non è la decrescita felice, ma la crescita giusta! E una idea positiva della sobrietà ne è una componente essenziale.
Noi, siamo fortunati: viviamo nella parte del mondo più ricca e molto più sostenibile di altre; questa condizione non riduce, anzi aumenta, le reponsabilità.
Questo mi porta al secondo spunto. Come rendere praticabile tutto ciò senza pensare inutilmente al “bon sauvage” o progettare improbabili rivoluzioni; anzi, accrescendo la disponibilità di beni e la qualità della vita di tutti?
Poiché abbiamo convenuto che siamo alla fine di un ciclo irrazionale di crescita infinita, ma che non vogliamo rinunciare al benessere e che il dibattito sul rigore e austerità ci appare inadeguato, dobbiamo diventare capaci di distinguere tra benessere e spreco. Lo spreco alimentare, energetico, ambientale, umano.
Il benessere è importante; se ve ne fosse un po’ di più nel mondo e più equamente distribuito potremo gestire davvero molti problemi che ci assillano, a partire da quello delle migrazioni epocali. Invece, assistiamo ad una ridicola quanto angosciante redistribuzione dei beni pubblici, illogica, la cui conseguenza è che o non c’è benessere o, dove c’è, sfocia nello spreco.
Secondo la Fao circa un terzo della produzione mondiale di cibo si spreca e si perde nella filiera alimentare; cioè 1,6 miliardi di tonnellate, di cui la metà circa ancora nella produzione e raccolta. Il valore di questo spreco equivale a 1000 miliardi di dollari. Per produrre questo speco si impegnano, inutilmente, circa 250 miliardi di litri d’acqua, per un valore di 164 miliardi di dollari!
In Italia (dati Last Minute Market) nel 2012 il 2,47% della produzione agricola è rimasta in campo, l’equivalente di 12.466.034 quintali di prodotto agricolo., con uno spreco di quasi 13 miliardi di acqua, Sempre nel 2012 nell’industria agroalimentare italiana, lo spreco medio ammonta al 2,6% della produzione finale totale, che porta ad uno spreco complessivo di 2.036.430 tonnellate di prodotti alimentari. Ogni italiano, cioè ciascuno di noi, spreca o butta cibo per circa 100 kg l’anno. Si stima che recuperando anche solo il 20% degli sprechi si potrebbe dare da mangiare a tutti gli indigenti italiani.
Cioè, in media, il 47% dell’acqua potabile va dispersa prima di arrivare ad un rubinetto. Consumiamo, procapite, 6300 litri al giorno di acqua per produrre cibo e siamo il terzo importatore al mondo di acqua virtuale al mondo (62 miliardi di metri cubi l’anno!), dopo Giappone e Messico. A testa utilizziamo 250 litri al giorno di acqua potabile, ma, poiché la rete idrica fa… acqua, cioè ha perdite pari al 40%, possiamo dire che ne preleviamo ben 350. Infine, siamo, in Europa, i primi consumatori di acqua in bottiglia con ingente spreco di plastica…
Nel rapporto 2015 sull’acqua dell’Unesco, leggiamo che entro il 2050 la domanda di acqua globale prevede un aumento del 55% dovuto principalmente alle crescenti richieste della produzione di elettricità termica e dall’uso domestico. Per la sola industria manifatturiera è previsto un aumento di consumi del 400%. Ma, soprattutto, l’agricoltura dovrà produrre, entro lo stesso periodo, il 60% in più di cibo e fino al 100% per i paesi emergenti. Si stima in 4000-5000 litri al giorno l’acqua necessaria per allevare animali e piante per dar da mangiare ad un singolo essere umano per un giorno.
Si potrebbe continuare con l’energia elettrica ed altro, ma possiamo fermarci qui.
Vi è un ultimo aspetto dello spreco che voglio ricordare: lo spreco umano, delle intelligenze, delle competenze.
Ogni archeologo che finisce a lavorare a fare il custode del museo ed ogni custode che resta disoccupato; ogni pasticciere che va a fare il commesso al supermercato ed ogni commesso che resta precario; ogni ingegnere informatico che si trasforma in tecnico di computer, ogni programmatore che finisce a vendere tablet in un grande magazzino è così via… è una perdita di qualità e competitività del nostro sistema.
Non si tratta solo di speranze deluse, di anni di studio sprecati. Pensate a quanti soldi pubblici ci sono dietro la formazione di ogni ragazzo, quante borse di studio, finanziamenti alle università pubbliche, progetti di ricerca. Sono tutti soldi che, se quella persona non va ad assolvere alla sua funzione, vanno sprecati. Lo Stato Italiano ha formato qualcuno per anni, spendendo soldi di tutti noi, senza che la collettività ricavarne complessivamente un beneficio.
In conclusione: è arrivato il momento di parlare non genericamente di economia, ma di Democrazia economica. Dobbiamo dar vita ad diverso assetto politico istituzionale. All’ordine del giorno serve una riforma della di governance globale.
Non ho il tempo, qui, per entrare nel merito, ma ecco un breve elenco di un agenda possibile: riformare il FMI e la Banca mondiale; ritornare alla distinzione tra banche di investimento e banche commerciali; sviluppare il credito cooperativo ed il microcredito; adottare, con maggiore determinazione, i parametri dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro; non rinunciare al modello sociale europeo; sviluppare i processi di public company, di partecipazione, almeno nei casi di privatizzazioni o nelle municipalizzate), puntare sui fondi pensione e sanitari; sulle forme di impresa cooperativa; ripensare ai criteri di formazione del bilancio e finalmente adottare, su scala generale, nuovi parametri di valutazione del Pil.
Il futuro, la convivenza, l’equilibrio geopolitico dello scacchiere globale, dipenderà, dunque, dalle scelte che i governi, le industrie, le associazioni, i movimenti, ma anche – e non poco – le singole persone faranno sulle grandi risorse naturali. Acqua, energia, cibo, rifiuti sono i nostri “segni dei tempi”. Saranno i protagonisti delle future conquiste, dei domini, l’oggetto dei grandi trattati, le opportunità per nuovi incontri, relazioni, alleanze, amicizie; comportamenti individuali e collettivi; le condizioni per la lotta alla miseria e per la costruzione di un mondo più giusto. Guerra e pace, benessere o degrado dipenderanno da tutto ciò.
Non ci dobbiamo, dunque, né stupire né disperare, o rassegnarci, di fronte alla manifesta difficoltà del genere umano di … badare a sé stesso. Dobbiamo – è il nostro compito generazionale – demolire equivoci, costruire risposte, edificare opportunità. Non abbiamo rotte sicure, ma non dobbiamo avere paura di osare; dobbiamo tentare e ritentare. Non è detto che saremo noi a vedere gli esiti di questi sforzi; anzi è probabile che no. Questo è tempo di semina; in molti caso è appena tempo di aratura…
Solo se la nostra presunzione di contemporanei onnipotenti, che ci riteniamo esclusivi autori di noi stessi, fruitori illimitati ed ingordi del nostro tempo, cederà il passo al “martirio della pazienza” (come, parlando della necessità di nuovi orizzonti della politica, si esprimeva monsignor Casaroli!), potremo essere davvero protagonisti della nostra epoca. Sia chiaro non intendo parlare di modestia (che comunque non guasta), di toni bassi, di rinuncia. No, intendo lo spirito del ricercatore, del pioniere, dell’esploratore; dedicando molte energie a edificare questo complicato mondo nuovo.
Dice A. Sen che senza equità non ci sarà sviluppo, non ci sarà futuro. Ma, questo futuro è già il nostro presente…
C’è poco anzi nulla da aggiungere ed il commento non può che essere integralmente e imperativamente POSITIVO. Mi permetto, umilmente, di sintetizzare
il suo profondo intervento così: serve “PIU’ SOCIALE” e “MOLTO MENO SOCIALE” (e questo lo penso da sempre, da quando ho cominciato a ragionare ponendomi dei perchè…)