Riformismo 2018-02-04T16:11:20+01:00

RIFORMISMO

IL DECENNIO (BREVE) DEL RIFORMISMO

“Voglio affermare che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti”

J.M. Keynes

Nel suo ultimo rapporto sulla situazione sociale del Paese, il Censis arriva a una complicata conclusione: dopo anni di gravi difficoltà economiche e sociali, l’Italia, finalmente, cresce, si riprende. La situazione generale migliora, gli effetti sono percepibili, ma il “clima” sociale è compromesso da un fastidio diffuso verso le istituzioni, tutte; da invidie sociali; da corporativismi; dall’assenza di un collante positivo. L’esito è un’Italia dei… “rancori”!
A ben vedere non dobbiamo stupircene troppo se è, ormai, da un bel po’ di anni che parliamo di “populismi”, intendendo, con ciò, un fenomeno sociale e politico di grandi dimensioni, di stampo radicale, che trascina con sé processi di disgregazione istituzionale, fratture culturali, incertezze sul futuro. Sia a “sinistra” sia a “destra”. Sempre che questa terminologia – usata tuttora con stupefacente disinvoltura – riesca ancora ad assolvere al suo compito storico di rappresentare espressioni condivise; movimenti collettivi omogenei; classi o, almeno, ceti sociali di riferimento.
Ma è proprio con questo processo che dobbiamo fare i conti se vogliamo ripercorrere le tappe di questo breve (o lungo?) decennio di riformismo proposto, accennato, perseguito, costellato di qualche successo, ma, sostanzialmente, di occasioni perdute.

Tutto inizia, per il nostro ragionamento, proprio dieci anni fa, con l’interessante e, probabilmente, decisiva, ai fini della nostra indagine, coincidenza tra la nascita, da una parte, di nuove, significative – addirittura esaltanti – speranze riformiste alimentate dalla campagna elettorale americana di Barack Obama e, qui da noi, dalla costituzione del Partito Democratico, e, dall’altra, l’esplosione della bolla dei subprime americani, che ha dato inizio alla più grande crisi economica globale della storia moderna e che ha attraversato l’intero decennio.
La portata storica di quanto stava accadendo fu, ben presto, chiara. Sicché, tutti, proprio tutti (anche coloro che l’avevano provocata), affermarono che ne saremmo usciti “diversi”. Ho sostenuto più che per diversi, si doveva, necessariamente, intendere “migliori”, altrimenti non ci sarebbe stato motivo di utilizzare questo concetto.
Le “crisi”, se non sono il preludio o il pretesto per una rivoluzione, sono sempre, come sappiamo bene – salvo ricordarcene a cose fatte – straordinarie occasioni di rigenerazione. A patto che siano gestite con una strategia lucidamente ed energicamente riformatrice, capace di rispondere, con contenuti progressisti, alle molteplici domande che vengono dalle popolazioni, in un difficile equilibrio tra valori e interessi. Quando ciò non avviene – non importa il perché, se per colpe o per impossibilità – lo sbocco è regressivo; sia sul piano dei valori sia delle condizioni sociali.

Sembra che sia accaduto proprio questo. Oggi, alla fine di questo tumultuoso decennio, al contrario di come era cominciato, stiamo uscendo, finalmente, dalla crisi economica, ma a prezzo di crescenti disuguaglianze e siamo entrati, con l’elezione di Trump e le difficoltà evidenti delle istanze progressiste in Europa e in Italia, in una profonda crisi della politica. Certamente di quella riformista.
Abbiamo, dunque, il dovere, alla fine del periodo che abbiamo preso in considerazione, di chiederci se abbiamo utilizzato bene questo decennio o no.
Anche perché, in quel lontano 2007 e dintorni, vivemmo quegli avvenimenti economici e politici, e le contraddizioni e le opportunità che ne derivavano, in “piena avvertenza e deliberato consenso”, e attribuimmo loro la giusta portata di una straordinaria occasione; derivante, appunto, dall’avvento di una possibile stagione riformatrice, che veniva immediatamente messa alla prova, perché chiamata a misurarsi con la dimensione drammatica degli effetti di quanto le cronache economiche annunciarono a partire dall’agosto di quell’anno.

Le tappe simboliche, e cruciali, del decennio

Per tentare una risposta, al doloroso quesito, dobbiamo ripercorrere le tappe cruciali di questo periodo. Facciamolo costruendo uno schematico calendario, più simbolico, che altro.
Iniziando proprio dal 2007, vero anno di svolta, che farebbe la fortuna (o la disperazione) degli astrologi. Infatti, in quell’anno si concentrarono alcuni avvenimenti, in parte già accennati, che, per il nostro ragionamento sul decennio appena trascorso hanno una portata storica e segneranno tutti gli anni a venire.

Si comincia a gennaio. A Copertino, Steve Jobs presenta l’IPhone. Il 29 giugno, primo giorno di commercializzazione nei negozi, se ne vendono 520 mila esemplari; dopo due mesi le vendite raggiungono il milione solo negli USA. È l’avvio di un decennio di innovazioni straordinarie, nelle comunicazioni e nel commercio. Facebook scoppia in Italia nell’agosto 2008, con 1.300.000 utenti, che sono diventati 24 milioni nel maggio 2017. Whatsapp, nato nel 2009, è ormai usato da oltre 1 miliardo di persone in 180 paesi. Amazon è il primo sito ecommerce italiano.

Il 10 febbraio Barack Obama “scende in campo”. Dichiara, cioè, di voler correre per le primarie, che vincerà. “Yes we can” diventerà non solo lo slogan riuscito di una straordinaria campagna elettorale, ma il simbolo, la voce, di un’intera nazione e di una speranza generale, che porterà all’elezione del primo Presidente “nero” della storia americana. Succede, simbolicamente, a Tony Blair, che si dimette da primo ministro nel giugno di quello stesso anno. Grandi speranze si annunciano per i riformisti… Ma, dieci anni dopo, nel gennaio 2017, a Washington, Trump giura. Da “Yes, we can” ad “America first”, si consuma l’approdo dal riformismo, dai diritti civili e sociali, dall’integrazione globale (con tutte le contraddizioni del caso) al protezionismo, a un neo liberismo e all’autosufficienza degli Stati Uniti. Ma Trump lo predica e lo fa in nome del “forgotten men”.

A giugno 2007, a Torino, in uno dei luoghi simbolo dell’Italia industriale, il Lingotto, nasce, dalla fusione tra gli eredi dei due grandi partiti di massa (la Democrazia cristiana e il Partito comunista), il Partito Democratico che si richiama alla tradizione del riformismo socialdemocratico europeo e della dottrina sociale post-conciliare. Nel 2008 perde le elezioni, ma raggiunge il 33%. Nel 2013 vince le elezioni, ma in affanno, è incapace di eleggere alla Presidenza della Repubblica, il solo leader riformista che, per ben due volte, aveva battuto le destre: Romano Prodi! Nel 2015, dopo un delicato cambio di vertice e di governo, sull’onda di una forte spinta di rinnovamento, supera il 40% nelle elezioni per il Parlamento europeo. Governa, produce riforme, ma, nel 2016, perde clamorosamente il Referendum sulla riforma costituzionale e inizia una seria crisi di consenso.

Nell’agosto 2007, BNP Paribas informa i clienti che, a causa della crisi dei subprime, non rimborserà gli investimenti effettuati in tre suoi fondi. Le borse crollano. Due giorni dopo la Bce interviene con un’immissione di liquidità nelle banche di 95 miliardi di euro e continuerà a farlo per tutto il decennio con il QE. Dieci giorni dopo la Fed taglia i tassi. Un anno dopo, 15 settembre 2008, la Lehman Brothers annuncia il fallimento con 613 miliardi di dollari di debiti bancari e 155 di debiti obbligazionari. Da allora l’instabilità finanziaria è all’ordine del giorno e finirà per coinvolgere gli Stati sovrani. Nel 2011 l’Italia rischia il default e il 5 luglio 2015, in Grecia, si tiene il Referendum popolare che boccia le misure di austerità. Esito di un processo che ha spaccato l’Europa sulla strategia da adottare e minato la sua unità. Nel frattempo, nel settembre 2011 (a dieci anni dall’assalto terrorista alle due torri), a New York, al grido del “Noi siamo il 98%”, una ballerina in bilico su un toro infuriato diventa il simbolo della protesta, iniziata quasi un decennio prima a Seattle, contro la grande finanza, responsabile della crisi economica, diventata ormai devastante. Protesta che coagulerà, negli anni successivi, in uno strano e involontario cartello, dai Black bloc ai partiti populisti che prendono vigore in molti Paesi.

Il calendario prosegue e vale la pena segnare alcune altre date significative di questo cammino.

Dicembre 2010, Sidi Bouzid, Tunisia. Il gesto estremo di un venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, che si dà fuoco per protestare contro l’ingiusto trattamento riservatogli da un agente di polizia, dà iniziò alla lunga Primavera araba. Ma l’approdo non sarà all’altezza delle aspettative e i problemi interni al mondo arabo esploderanno con l’Isis e si scaricheranno con un crescendo di tensioni che portano i terroristi a colpire, nel gennaio 2015, a Parigi, Charlie Hebdo. Il primo di una lunga serie di attentati che sconvolge un’Europa attonita ed immobile, a Londra, a Berlino, in Turchia. Ma, non solo: Egitto, Tunisia, Afganistan, Libia sono coinvolti nel disordine. Per disperazione e per fame, la gente fugge da quei luoghi e si accentua così il fenomeno migratorio che diventerà evidente il 19 aprile 2015, quando 700 migranti affondano con un barcone nel Mediterraneo. L’episodio più grave di una tragedia continua, che aggiunge risalto all’incapacità europea di affrontare i grandi fenomeni contemporanei.

13 marzo 2013, a Roma, i massimi rappresentanti del cattolicesimo, riunitisi dopo le improvvise dimissioni di Benedetto XVI, in una Chiesa sconvolta da scandali interni drammatici, di tipo finanziario ed etico, eleggono un sud americano di origine italiana (un “latino”…): Francesco. Il quale, già dalla scelta del nome, si colloca su una frontiera fortemente caratterizzata dai più deboli e poveri, in sintonia con “i segni dei tempi”, adottando, peraltro, una modalità di comunicazione decisamente innovativa e moderna, perché diretta e semplice e, quindi, efficace nel messaggio pastorale, oltre che in quello politico, che trova la sua miglior sintesi in quel concetto di “periferie esistenziali” da lui più volte ribadito.

Giugno 2016, a Londra, il sogno di un’Europa unita, solidale, figlia del manifesto di Ventotene si infrange contro il 51,9% di britannici che vota a favore della Brexit. La crisi d’identità verso l’Europa e le sue politiche – ma anche verso la propria nazione, come nel caso della Catalogna – si palesa, con logiche populiste e autonomiste, in Austria, in Olanda, in Germania, a Est. Il 2017 si avvia verso la sua conclusione con un “onorevole” compromesso tra l’Europa e la Gran Bretagna, ma che nulla dice sulla profondità della crisi dell’Europa.

Maggio 2017. La Francia elegge Macron Presidente. Europeista convinto, vince controcorrente e apre uno scenario nuovo nel panorama europeo.

Ottobre 2017. Ma il decennio finisce con la celebrazione del Congresso del partito comunista cinese, che consacra il potere di Xi Jinping, il quale, come aveva detto a Davos, qualche mese prima, apre al mercato e dà definitivamente corpo ad un “neocapitalismo pre-democratico” che guarda al futuro con la realistica prospettiva di fare della Cina, già potenza mondiale e già “moderatamente prosperosa”, una società a “sviluppo verde, a protezione dell’ambiente e in armonia con la natura”.

Le date richiamano avvenimenti vissuti e, questi, i volti, le persone, le parole, che si sono succeduti, intrecciati, rincorsi, nel complesso dipanarsi di questo decennio, che si è aperto, come abbiamo visto, sull’onda della più grande recessione economica dal 1929, della straordinaria rivoluzione tecnologica delle comunicazioni e della grande speranza riformista che veniva dall’America di Obama e dalla nascita del Pd, ma che sembra chiudersi al contrario: una discreta ripresa economica, ma una crisi profonda della politica riformista che ci appare indirizzata a naufragare contro gli scogli inondati dalla sterile, ma ammaliante retorica del populismo globale. Con le curiose, interessanti, eccezioni del Papa (al quale è difficile attribuire l’etichetta di “riformista”), del Presidente Cinese e del Presidente Francese, che, per ragioni diverse, sono riformatori, ma non necessariamente “riformisti”.

La portata, ambivalente, del riformismo

Cosa è successo, dunque, in questi dieci anni? Cosa ha rappresentato il riformismo? Come si è mosso? Come è cambiato? Quale ruolo hanno avuto i suoi leader e le loro politiche?

Le ricerca di risposte parte da lontano; dalla caduta del Muro all’illusione della crescita infinita, ovvero, potremmo dire l’andata e ritorno di una crisi annunciata!
È da allora che le società occidentali attraversano una crisi profonda di identità, scoppiata all’improvviso dopo un lungo tratto di strada, durante il quale il filo conduttore della crescita e dello sviluppo economico e civile sembrava non interrompersi. Dalla nascita dell’Europa alla nuova frontiera, fino al miracolo economico, al Concilio ecumenico, alla Perestrojka, tutto sembrava un fiorire, un pullulare, di un’epoca di prosperità e di disgelo. In quel clima, perfino l’arrivo a Teheran di Khomeini ci era apparso una rivoluzione positiva. E, persino i drammi e le sconfitte, come la Primavera di Praga o il Cile di Allende, provocavano nuove sensibilità, costringevano a porci nuovi orizzonti. Sicché, abbiamo interpretato l’evento principale: la caduta del Muro di Berlino come l’esito inesorabile di una stagione di progresso continuo, ma, soprattutto, come una catarsi.

Ma, proprio la caduta del Muro, che, indubbiamente, sprigionò libertà e democrazia, giustamente esaltati da tutti noi, prospettava nuovi problemi e nuovi squilibri, di dimensione planetaria, che sono stati clamorosamente sottovalutati o esorcizzati. Perché lo sviluppo economico che ha caratterizzato gli anni ’60 e ’70, dopo la ricostruzione post-bellica, ha creato un’illusione ottica, che la caduta del Muro, con la dissoluzione del blocco socialista e l’apparente vittoria del capitalismo liberista, ha avallato: l’idea di un inarrestabile ed illimitato sviluppo, sotto l’egida protettrice del mercato.

Si è trattato di un’idea vincente, ma sbagliata. La globalizzazione, infatti, con la caduta del Muro, si è imposta come l’unico parametro di misura del mercato stesso. Essa ha avuto, sì, il merito di aver portato alla ribalta il mondo intero, parte del quale, fino a quel momento, escluso o relegato ai margini dei grandi processi della Storia; ma proprio questo processo ha reso, via via, sempre più impraticabile la presunzione, che ha caratterizzato le grandi istituzioni economiche internazionali pubbliche (il Fondo monetario o la Banca mondiale) e private (le grandi multinazionali) di imporre ovunque lo stesso modello politico ed economico.
Sicché, la globalizzazione ha, di certo, sottratto alla povertà assoluta milioni di persone, ma ha provocato la crescita smisurata delle disuguaglianze, tra i Paesi e all’interno di ogni Paese!

L’equivoco ha retto fino a che, l’11 settembre del 2001 (se vogliamo continuare a individuare date simbolo…), qualcosa si è spezzato: con le torri è crollato un mondo. Gli squilibri hanno logorato le certezze e a essere messi in discussione sono stati i valori e le culture. Le Istituzioni si sono come inceppate, il mondo si è nuovamente diviso in “blocchi” e la gente si è rifugiata in difesa. Così, progressivamente, l’individualismo ha avuto la meglio sulla solidarietà, le paure sull’accoglienza, il fanatismo sulla tolleranza. La crisi economica è arrivata qualche anno dopo, ma è esplosa dentro questo sbandamento generale, ed ha fatto il resto.

Diciamolo senza mediazioni linguistiche: abbiamo a che fare con un fallimento. Clamorosamente evidente quello del liberismo, vincente per tutti gli anni ’80, col reaganismo e il thatcherismo, che hanno dato vita al modello di crescita che si è imposto nell’Occidente, quando già Madre Teresa, Junus e Amartya Sen ci avvertivano dell’insostenibilità degli squilibri globali.
Ma, il fallimento è anche della socialdemocrazia, che è rimasta intrappolata tra statalismo e mercato e, soprattutto quella europea, nella sua centralità, e non è riuscita a rispondere alle sfide del cambiamento.

Un timido tentativo lo ha fatto la terza via, ma non è mai davvero decollata, sia perché i suoi principali esponenti si sono trovati schiacciati da una complessa congiuntura internazionale, sia perché il resto della socialdemocrazia europea non ha saputo fare un salto di qualità in grado di accogliere gli stimoli che ne derivavano. Basti pensare all’accoglienza fredda, quando non ostile, che la sinistra italiana ha riservato a Tony Blair.

Il risultato è che le due teorie dominanti e quella emergente non sono state in grado di dare risposte convincenti ed efficaci all’emergere delle insofferenze della società civile, ricca e povera. Insofferenze, che, come abbiamo già detto, sono state aggravate dalla più lunga crisi economico-sociale, dopo quella del 1929, dalla quale si è usciti, non dimentichiamolo mai, con un New Deal, un “nuovo corso”.

Chi offre speranze?

Con alle spalle questo scenario i tentativi del rinascente riformismo dell’inizio del nostro decennio si sono mossi coraggiosamente, ma sostanzialmente privi di un fertile contesto e, dunque, controcorrente.
Corrispondono, in parte a questo tentativo, le politiche di sostegno alla domanda aggregata, sotto forma di un forte aumento del disavanzo pubblico, messe in campo da Barack Obama, cui il presidente statunitense ha affiancato un’estensione delle politiche di welfare attraverso la riforma sanitaria. I risultati ci sono stati: una robusta ripresa economica, un sistema di protezione sociale più equo, un allargamento dei diritti civili. Eppure non è servito a vincere ancora. Forse quei successi erano intrinsecamente legati alla figura di Obama, forse la candidata non rappresentava, non solo rinnovamento, ma nemmeno continuità, bensì un ritorno indietro a un sistema di potere familiare che aveva fatto il suo tempo. In effetti, la novità è stata Trump e il consenso degli strati popolari lo ha fatto vincere.

In Europa, in contrapposizione al keynesismo degli Stati Uniti, la Commissione europea e la tecnocrazia dell’Unione hanno scelto la via dell’austerità, o, per essere più precisi, del rigore, attraverso la riduzione drastica dei disavanzi pubblici e l’obbligo, per legge, del pareggio di bilancio. Una ricetta di stampo neoliberista, che si richiama all’impostazione di Von Hayek, il grande economista austriaco, secondo il quale gli squilibri provengono da un eccessivo intervento pubblico, cui contrapporre il ripristino del naturale ciclo economico e del processo di sviluppo.

Questo è un punto cruciale della nostra riflessione e, forse, in questo snodo possiamo trovare una chiave di lettura del decennio e, probabilmente del vero limite del riformismo, che, in assoluta buona fede, ha perso di vista le possibili implicazioni strategiche che il dibattito sulla “austerità” consentiva. Esso, infatti, è stato affrontato in chiave soprattutto politica. Il peso della crisi sulle imprese, soprattutto le più piccole, e sui ceti popolari ha portato la politica riformista, in cerca di consenso, perché pressata dalle crescenti spinte populiste, a reagire, giustamente, contro la dominante impostazione europea rigorista, ma senza maturare quella che potremmo definire una “strategia nella crisi”, senza, cioè, arrivare a distinguere tra rigore e austerità, tra austerità e sobrietà, tra benessere e spreco.

Eppure, almeno il nostro Paese aveva a disposizione un precedente interessante a cui riferirsi: la crisi petrolifera dei primi anni ’70. In quel periodo, proprio dalla sinistra (Berlinguer) e dai sindacati (“la strategia dell’Eur”, come venne chiamata) venne adottato un approccio alla crisi nel quale la austerità fu assunta come un modello virtuoso di redistribuzione (la politica dei redditi) e dove i “sacrifici”, inevitabili, erano condivisi e collettivamente accettati. Non certo felicemente, ma con uno spirito di responsabilità “generale”.

Non sfuggono i limiti di quella strategia, ma è indubbio che l’ampio consenso registrato dal Partito comunista negli anni ’80 e la forza conservata ancora per un bel po’ di tempo dai sindacati si deve anche alla capacità di esplicitare questa linea (oltre al ruolo avuto nella lotta al terrorismo). A riprova che ci sono molti modi per vincere le elezioni, non soltanto inseguendo l’onda.

Con la grande ultima crisi questa volontà non c’è stata. La precipitosa caduta del Governo Berlusconi, alla fine del 2011, travolto dallo spread, non è avvenuta in un contesto culturale di maturazione della natura strutturale della crisi. Il dibattito politico sembrava assegnare alla gestione della coppia Tremonti-Berlusconi le colpa della crisi, quasi che senza di loro si potesse evitarla. La crisi aveva radici ben più profonde, interne (le mancate riforme strutturali) e internazionali (la crisi finanziaria globale). La colpa della destra fu quella di non vedere, o non voler vedere, tutto ciò, come la famosa battuta sui ristoranti pieni, di Berlusconi, ben rappresentava.

Ecco perché vale la pena chiederci, oggi, se di fronte alla lettera della Bce dell’estate 2011, che ha visto la politica italiana suddividersi tra totalmente favorevoli o totalmente contrari, l’approccio più convincente (e vincente!) non avrebbe potuto essere quello di assumere quei contenuti come un’agenda, alla quale dare risposte riformiste e non subirla con fastidio; per individuare poi, comunque, risposte impacciate, delegando Monti a fare scelte più drastiche del necessario. Sicché, successivamente, quando i governi di centro-sinistra accentuano il loro profilo riformatore – e riforme economiche e sociali sono state fatte – lo fanno all’interno di un contesto fortemente critico che ne limita l’azione. Da sinistra e da destra, si teorizza, con motivazioni opposte, che le regole europee sono un vincolo al quale non soggiacere. In questo scenario, la politica di riforme si è orientata a privilegiare un approccio espansivo e redistribuivo, in precario equilibrio tra deficit e tenuta dei conti. La linea della flessibilità, contrattata con l’Europa, è stata la valvola di sfogo che ha consentito al Governo di invertire la tendenza. Ma è pur sempre un compromesso e non una strategia.

Una battaglia in Europa è, in tal senso, decisiva. Infatti, le politiche europee, a traino tedesco, non appaiono tutt’ora in grado di concepire una politica di gestione flessibile della crescita. Come non lo sono state nel pieno della crisi, durante la quale la socialdemocrazia europea ha faticato ad approntare una politica alternativa. Prova ne sia la contrarietà dei paesi nordici, capeggiati dalla Germania, alla proposta italiana, formulata nel semestre di Presidenza europea, di una assicurazione europea contro i picchi di disoccupazione. Prova ne sia, anche, la debolezza nell’affrontare la discussione sul pareggio di bilancio, vissuto spesso come una fregatura e non come un’opportunità. Anche se, almeno in Italia, il riformismo è riuscito a riscrivere l’articolo 81 della Costituzione privilegiando al pareggio l’equilibrio, legato al ciclo favorevole e avverso.

Nei passaggi cruciali, dunque, i riformisti, come d’abitudine, si sono divisi. Ma non poteva che essere così. In Germania la Krosse Koalition imbrigliava i socialdemocratici nella linea rigorista, in Inghilterra il radicalismo pulito di Corbyn non ha rappresentato un’alternativa efficace, in Francia la debolezza di Hollande ha lasciato il suo segno negativo sul riformismo europeo. L’Europa, dunque, resta il primo cantiere da riaprire per un riformismo rigenerato. “Abbiamo lasciato che l’Ue diventasse una democrazia impotente”, dice Macron, sottolineando come le forze anti-europee siano cresciute “perché abbiamo dimenticato che Bruxelles siamo noi”.

È da questa dimenticanza che hanno trovato alimento i movimenti populisti; in quell’intreccio tra crisi economica, fallimento del liberismo e illusione della crescita infinita, alla quale il riformismo ha faticato a dare risposte, schiacciato tra politiche di rigore giustamente rifiutate, di austerità non governata, aneliti para rivoluzionari, ma sostanzialmente anti-istituzionali, di delegittimazione della classe politica.
Prima ancora che le ricette, sono mancate le categorie mentali per poter interpretare le pieghe di una società dove stava covando il disagio, dove la globalizzazione e i flussi migratori stavano minando la tenuta del nostro stare insieme, dove il terrorismo acuiva la percezione di insicurezza e instabilità.
Come si risponde all’avanzata del populismo e alla evidente crisi del riformismo? Esiste un’unica risposta. Con altro riformismo!
Un riformismo che va ripensato alla luce delle nuove sfide proposte dalle dimensione globale della realtà contemporanea. A cominciare, per l’appunto, dalle migrazioni di popoli, che non possono solo essere o respinti o accolti, ma che ci pongono la questione del perché scappino da lì e di quali politiche noi sviluppiamo verso quei Paesi. È necessario riflettere sulla gestione delle loro presenze in dignità e sicurezza; sulle risorse naturali iniquamente distribuite, o scarse o sprecate, a cominciare dall’acqua; sulle emergenze ambientali; sulla nutrizione di milioni di affamati; sulla distribuzione ineguale di ricchezze, ma, al tempo stesso, sulla necessità della loro “accumulazione” e produzione; sulle regole democratiche – che non ci sono – nel gioco globale. Sfide immense, ma non scansabili!

In Europa, come negli Stati Uniti, i risultati elettorali e il cambio del vocabolario politico hanno reso esplicita l’esigenza di tornare a riflettere.
Non ci resta che riprendere il cammino, verso un altro decennio della nostra storia. La continua tensione alla riduzione delle disuguaglianze, alla solidarietà, alla contrazione della crisi e alla condivisione del benessere, all’allargamento dei valori democratici e di giustizia sociale, restano il tratto distintivo del riformismo e del riformista. Nonostante le difficoltà, economiche e sociali; nonostante i populismi; nonostante i fallimenti.
Se posso, in conclusione, concedermi uno slogan, che potrebbe darci la misura di cosa debba essere la politica in questa lunga transizione, direi che dobbiamo essere “radicali e riconoscibili nei valori; riformisti e democratici nei programmi; pragmatici, semplici e virtuosi nella gestione”.
Le forze riformiste, politiche e sociali, possono vincere il populismo, i populismi (e, forse anche le elezioni!), pur in questo contesto avverso, solo se radicalizzano le scelte riformatrici. Solo se confusi tra la gente, saremo riconosciuti come portatori sani di solidarietà e di buon governo. Non da soli, non in pochi, non nell’accademia, non solo nei convegni, ma nel popolo, tra la gente. Mino Martinazzoli era solito dire: “tornate in strada, la politica è lì!”. Solo offrendo una prospettiva nettamente alternativa a quella populista si è credibili e, dunque, interlocutori di un popolo disorientato e scontento.

Solo così il riformismo, ma, soprattutto, il riformista, riprende anima, ben conscio della sua infelice condizione, stretto com’è tra i liberisti e i rivoluzionari, tra i conservatori e i populisti; ma, al tempo stesso, altrettanto conscio della straordinaria, insostituibile, “missione” a cui si è dedicato.
Dice Federico Caffè (“la solitudine del riformista”; il Manifesto 29 gennaio 1982):

Il riformista è ben consapevole d’essere costantemente deriso da chi prospetta future palingenesi, soprattutto per il fatto che queste sono vaghe, dai contorni indefiniti e si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo. La derisione è giustificata, in quanto il riformista, in fondo, non fa che ritessere una tela che altri sistematicamente distrugge. È agevole contrapporgli che, sin quando non cambi «il sistema», le sue innovazioni miglioratrici non fanno che tappare buchi e puntellare un edificio che non cessa per questo di essere vetusto e pieno di crepe (o «contraddizioni»). Egli è tuttavia convinto di operare nella storia, ossia nell’ambito di un «sistema», di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del «sistema».

È così! Ma, in fin dei conti, Trump, le Pen, Salvini e Grillo offrono suggestioni. A chi spetta, se non ai riformisti, offrire speranze e garantire futuro?

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